Intervento di Danilo Pellitteri Settembre 2016

Commento alla Liturgia - 4 Settembre 2016

“Quale uomo può conoscere il volere di Dio?
“Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?”
La parola di Dio parte da questa riflessione contenuta nella Sapienza (da “sàpere”, “insaporire”, “dare sapore”), da questo testo molto bello, un po’ pessimistico, scritto non per il popolo ebraico, ma per quel crogiuolo di culture che abitavano la zona di Alessandria qualche secolo prima di Gesù. Là dove questi ebrei, in un ambiente straniero ed ostile, si interrogano, si pongono le grandi domande sul senso della vita.
Chi riesce a rintracciare le cose del Cielo?
Chi riesce a dare senso alle cose che facciamo?
Chi riesce a capire il cuore dell’uomo?
E’ bello potersi ancora oggi interrogare, chiedere, lasciar vibrare dentro di noi questa Parola.
La Bibbia, scritta duemila anni fa, è un libro ancor oggi più che attuale, che ha a che fare con la mia vita concreta, che mi interroga, che mi scuote, che mi entra nel cuore.
Il vangelo di oggi sembra quasi voler essere una risposta a questa grande domanda che ci poniamo sul senso della vita.
GESU’ infatti ha una idea ben chiara e dice ai suoi discepoli e a noi:
E’ il volto di Dio, che Egli è venuto a rivelare, a dare senso alla nostra vita.
Lui è più della più grande gioia che possiamo vivere, della gioia dell’innamoramento,  della paternità,  della maternità,  del far parte di una famiglia che ci vuole bene.   Lui è più di tutto questo!!  
E ci dice “se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”.
Questa è la prima condizione, dura, posta da GESU’ per essere Suo discepolo. Attenzione, discepolo, non un semplice seguace!  Parole certo piuttosto aspre ad una prima lettura. Soffermandoci però sul: se uno non “mi ama di più”, ecco che con quel “di più” GESU’ in realtà intende non sottrarre amori, bensì aggiungere appunto un “di più”. Non si tratta quindi di rinunciare ai propri affetti, bensì di ampliarli, attraverso l’amore verso Gesù.
E’ questa assolutezza che ci viene chiesta: amare Gesù più di chiunque, più delle persone a noi più care, più della nostra stessa vita.
Ed amando Gesù più di chiunque, potremo amare di più le persone a noi più care, amare di più la nostra vita.
La proposta di Gesù tocca le nostre corde più intime, è radicale, totalizzante. 
Gesù vuole dirci che Lui può colmare il nostro cuore più della più grande gioia che possiamo vivere.
Un riferimento personale: mi sono avvicinato consapevolmente a Gesù in età oramai adulta, intorno ai trent’anni, sperimentando di persona sensazioni di grazia, beatitudine e pace profonda mai provate prima, imparando inoltre a saper accettare e perdonare chi mi aveva fatto o faceva del male, ma prima ancora dandomi la possibilità di accettare e perdonare me stesso, i miei limiti, i miei difetti, i tanti errori commessi.
Ancora oggi, in questo continuo - discontinuo cammino di conversione, mi accorgo di quando sono più o meno vicino a Gesù: quando mi allontano mi ritrovo ad essere più nervoso e litigioso, meno paziente e tollerante, in primis con me stesso, poi con la mia famiglia e talvolta anche con gli altri.
Al contrario, quanto più vicino sono a Gesù più mi sento centrato, in armonia con me stesso, gli altri e la vita che mi circonda.
Tornando al vangelo, troviamo scritto “una folla numerosa andava con Gesù”, ma Gesù mette subito le cose in chiaro dicendo “se uno viene a me”….. Gesù si rivolge alla folla sottolineando quindi che il rapporto, la relazione non è con la massa, ma con il singolo. A Gesù non interessano i raduni oceanici e neppure che lo si segua per fanatismo o per l’entusiasmo del momento. E’ un Dio che ci prende sul serio, vuole che la nostra scelta di lui sia consapevole.
Seconda condizione: La Croce. “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo.”
E’ la Croce, in cui si riassume la vicenda di Gesù, che dà senso profondo alla vita di noi cristiani, emblema di amore senza misura, disarmato, coraggioso.
Senza la Croce quale significato dare alla nostra vita? Senza la Croce quale significato dare alla sofferenza, alla malattia, alla morte, alla disoccupazione, alla crisi economica, alla fame nel mondo, al terrorismo, alle guerre, alle catastrofi naturali?
Portare la Croce significa saper accettare ciò che la vita Ti presenta.
Portare la Croce significa saper accettare e perdonare chi Ti fa del male.
Portare la croce significa amare, amare fino in fondo, nonostante tutto!
GESU’ ci pone poi una terza condizione: “Così chiunque di Voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”
Rinunciare a tutti i propri averi…… Rinunciare alle cose, non metterle in cima ai propri pensieri, rinunciare alla logica dell’avere di più , rinunciare a questo sistema disposto a fare del denaro la misura del bene e del male, uscire dalla logica “io ho, quindi io sono, io valgo”, imparare NON ad avere di più, MA ad amare bene e di più.
Quindi, per poter essere suoi discepoli:
1)    Amare Gesù sopra ogni altra relazione, anche la più sacra e cara, e amarlo più della nostra stessa vita
2)    Portare la propria Croce e rimanere sempre dietro Gesù, rinunciando alla tentazione di metterci davanti a Lui
3)    Rinunciare a tutti i propri averi, non come sacrificio, ma come atto di libertà
Luca infine riporta nel vangelo due parabole:
la prima compara la sequela alla costruzione di una torre. E’ bene fermarsi a valutare attentamente ogni costo onde evitare fallimenti che espongono alla derisione.
La seconda la compara ad una guerra ad armi impari tra due re. E’ bene che il re che ha un minor numero di soldati da schierare sappia valutare bene l’entrata o meno in guerra, onde evitare di doversi arrendere.
GESU’ NON ama le cose lasciate a metà, perché generano tristezza.
GESU’ ci invita a pensarci bene prima di deciderci a seguirlo. E sembra dirci: questa è la strada, io sono la via, Te la senti?
Ecco quindi che essere Cristiani richiede una scelta consapevole, una decisione libera, matura, ponderata, intelligente.

A questo proposito torna utile concludere ricordando la seconda lettura di oggi che cita quel breve foglietto che Paolo Apostolo scrive al suo amico Filémone, finito non si sa esattamente come nella Bibbia.
Uno schiavo di Filemone, Onesimo, è scappato ed è andato da Paolo a chiedere rifugio. Paolo intuisce subito che la situazione è piuttosto complessa e delicata.  Così rimanda Onesimo dal suo padrone, Filemone, con questo biglietto, nel quale gli dice: Filemone, è certo che Onesimo è scappato, che lui è un tuo schiavo, che è tua proprietà, ma nel contempo ricordati che tu sei credente, così come anche Onesimo è credente, siete entrambi credenti, quindi fratelli. Così Paolo chiede a Filemone di trattare Onesimo come fosse lui, il suo amico Paolo, tanto stimato e voluto bene,  giungendogli a chiedere di far finta che Onesimo fosse Paolo stesso.
Certo, Paolo non intende mettere in discussione il concetto di schiavitù, retaggio di tutte le culture del tempo: ebraica, romana, greca; ma introduce un concetto nuovo, cioè il fatto che tra due cristiani non ci può essere uno schiavo ed un padrone, ma il padrone considera lo schiavo un fratello e lo schiavo serve il suo padrone come fosse un fratello.
Proviamo solo, se ci riusciamo, ad immaginare come potrebbero essere diversi spesso i luoghi di lavoro, tra i dipendenti e i propri datori di lavoro, e tra i datori di lavoro ed i propri dipendenti, se solo venisse applicata questa semplice cosa che Paolo aveva intuita duemila anni fà.
Paolo, che ha sperimentato che Gesù è più di qualunque altra cosa più grande che possiamo vivere, ribalta la prospettiva… se questo è vero, allora il mondo cambia: cambiano i potentati, cambiano le politiche, cambia l’economia, cambia addirittura una cosa così consolidata e certa come poteva essere la schiavitù.

La liturgia ci dice quindi che questa Parola, la pretesa di Gesù di essere più di ogni altra cosa, se presa sul serio, cambia la vita di Paolo, di Onesimo, di Filemone  e  di tutti noi.

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